Valentina Bartolucci - Da Primavera Araba a Autunno di Tempesta Il mondo arabo in subbuglio
Cosa sta succedendo nel mondo arabo. Il 18 dicembre 2010 è la data d’inizio delle cosiddette ‘Rivoluzioni Arabe’ cominciate in Tunisia con un gesto estremo di protesta quale il darsi fuoco da arte di un giovane Tunisino ormai divenuto famoso, Mohammed Bouazizi.
Quel gesto è servito da scintilla per un’ondata di rivolte che ha scosso l’intero mondo arabo con un effetto domino per molti versi inaspettato. Fino ad ora, in soli sei mesi, ci sono state rivoluzioni in Tunisia e Egitto, le proteste libiche si sono trasformate in una vera e propria guerra civile, ci sono stati rivolgimenti in Bahrein, Siria, Yemen, grosse proteste in Algeria, Iraq, Giordania, Oman, Marocco e ai confini d’Israele, e proteste di minore entità in Libano, Kuwait e Arabia Saudita. In molti casi le proteste sono scaturite in seguito a immolazioni di giovani in risposta a situazioni oramai insostenibili, organizzate su social networks quali Facebook, e avviate nei cosiddetti ‘giorni della rabbia’, spesso dopo il venerdì di preghiera musulmano.
Due governanti sono già stati deposti: Ben Ali in Tunisia (dopo 12 anni di governo) seguito, dopo meno di un mese, da Mubarak in Egitto (dopo 30 anni al potere). Anche il Presidente dello Yemen, Saleh, ha lasciato il paese -ufficialmente per ragioni mediche- recandosi in Arabia Saudita e lasciando il paese sull’orlo del collasso. In Libia, le proteste antigovernative cominciate il 15 febbraio e il rifiuto del leader del paese Gheddafi, di lasciare il potere, hanno condotto a una vera guerra civile dagli esiti incerti e preoccupanti e ad un intervento armato a supporto dei ‘ribelli’ autorizzato dalle Nazioni Unite.
Il 23 gennaio le proteste si sono estese allo Yemen. Le manifestazioni di piazza contro il governo del Presidente Ali Abdullah Saleh sono ben presto cresciute al punto da dividire la capitale fra le forze leali al Presidente e le milizie rivali. Ai primi di giugno i morti erano già 135. In risposta il Presidente si è dichiarato disposto a terminare il suo governo dopo 33 anni in maniera pacifica, rifiutando però di firmare il piano di transizione propostogli da il Consiglio di Cooperazione del Golfo. La situazione è estremamente complessa. Infatti, insieme alle rivolte antigovernative, altri scontri rischiano di frammentate irrimediabilmente il paese, facendo temere che il caos politico in cui si trova lo Yemen attualmente faciliti ulteriormente uno dei più vivaci focolai di Al Quaeda nella regione. Il danno economico è comunque già altissimo, più del 50% della popolazione vive attualmente sotto la soglia minima di povertà.
Nel frattempo, Abdullah, Re di Giordania, ha attuato un rimpasto ministeriale, nominato un nuovo Primo Ministro e promesso riforme in risposta alle proteste. Sempre in risposta alle proteste di piazza, in Libano un nuovo governo è stato formato, e in Algeria lo stato d’emergenza sollevato dopo 19 anni. In altri paesi, le proteste continuano, nonostante i governi abbiano risposto ai malcontenti con riforme, concessioni politiche e promesse di una maggiore apertura democratica.
In Marocco, la monarchia ha agito velocemente rispondendo ai malcontenti di piazza con l’annuncio del Re Mohammed VI, il 9 marzo, di un pacchetto di riforme costituzionali. Questo, tuttavia, non è bastato, e la gente è tornata in piazza. Ulteriori aperture, quali la liberazione di alcuni prigionieri, sono state seguite da un attentato, il 20 aprile, in cui sono morte 17 persone, le cui ragioni non sono chiare. Il re ha in seguito proposto una riforma della costituzione nella quale il governo accrescerebbe il suo potere, soggetta a referendum popolare da tenersi il 1 luglio. Insoddisfazioni di una parte della popolazione però rimangono.
I rivolgimenti in Siria possono diventare i più importanti di tutti: non solo per la posizione geopoliticamente strategica della Libia e l’influenza che può esercitare sull’ Irak, il Libano, la Giordania così come sul conflitto Israeliano-Palestinese, ma forse ancor di più perchè la Siria è il punto nevralgico attraverso il quale l’influenza iraniana può raggiungere tutto il medio oriente arabo. La proteste sono ormai entrate nel quarto mese (luglio 2011) e sono già costate mille morti e migliaia di feriti, accompagante dalla certezza che non spariranno a breve termine.
In Bahrein, inizialmente le proteste cominciate il 14 febbraio erano dirette al raggiungimento di maggiori libertà politiche e rispetto dei diritti umani fondamentali, e non a minare la monarchia. È solo in seguito al raìd avvenuto durante la notte del 17 febbraio e in cui la polizia ha ucciso tre manifestanti che la piazza ha cominciato a reclamare la morte della monarchia. Nei giorni seguenti le proteste si sono intensificate così come gli interventi contro i manifestanti. Dopo un mese dall’inizio delle proteste, l’Arabia Saudita manda parte delle sue truppe in Bahrein, accompagnati da 500 poliziotti dagli Emirati Arabi, per aiutare il governo a placare le rivolte in corso - aprendo il fuoco sui manifestanti e uccidendone molti. È il primo caso dall’inizio delle rivolte arabe di intervento da parte di uno paese arabo che interviene militarmente contro un paese vicino. La richiesta d’intervento è stata fatta dal Re Hamad bin Isa Al Khalifa in seguito all’intensificarsi delle rivolte a Manama. Gli oppositori hanno parlato di invasione militare. L’intervento militare ha rinfocolato ulteriormente gli scontri con migliaia di sciiti scesi in piazza. Il 15 marzo il Re dichiara lo stato d’emergenza, prorogato poi fino al 1 giugno. Il Re per il momento sembra non voler cedere alle pressioni della parte sciita che costituisce la maggioranza della popolazione ma è trattata come minoranza (la dinastia regnante da 200 anni è sunnita). Le proteste continuano. La più grande minaccia per il governo sembra provenire dall’Iran, considerato dal regime come vero instigatore delle proteste. Nonostante le piccole dimensioni del Bahrein, la sua posizione geopolitica lo rende un punto strategico fondamentale.
In Kuwait e in Oman, alcune riforme sono in atto, sono state promesse concessioni economiche e messi in atto cambiamenti anche a livello governativo. Le dimensioni degli eventi, la velocità inattesa con la quale le rivolte si sono propagate, le profonde implicazioni geopolitiche e le ingerenze da parte di potenze occidentali, hanno attirato attenzione da parte del mondo intero.
Le cause
I rivolgimenti del mondo arabo non sono emersi totalmente dal nulla. Vari dissensi e manifestazioni di piazza erano già in atto in tanti paesi quali l’Algeria, la Tunisia e l’Egitto da anni – erano semplicemente inascoltati. Il catalizzatore dell’escalation che si sta vivendo oggi nel mondo arabo è stato offerto dall’immolazione del giovane tunisino, che, disperato, si è dato fuoco come ultimo tragico allarme di una realtà divenuta insostenibile. Da allora, gruppi e attivisti già presenti e consolidati sul territorio si sono congiunti in una causa comune – riappropriarsi del proprio presente chiedendo pane, dignità e libertà. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un generale miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni del mondo arabo. Il tasso di alfabetizzazione si è, seppur lentamente, alzato e sempre più giovani hanno avuto accesso a un’istruzione superiore. La consapevolezza di cosa c’è ‘fuori’ anche è cresciuta, così come la voglia di libertà. Questa tensione fra aspirazioni crescenti e la mancanza di riforme da parte dei governi ha certamente contribuito all’esplosione dei malcontenti.
Altri fattori che hanno contribuito alle proteste sono stati: l’aumento del caro vita che era arrivato a precludere le persone da mezzi di sostentamento primari, quali il pane, la dilagante corruzione governativa, il divario sempre crescente tra i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, e la percezione di una classe dirigente sempre più lontana dai reali bisogni dei propri cittadini. Il rifiuto dei più giovani (molti dei quali hanno studiato in Europa) di accettare lo status-quo ha contributo largamente a unificare i vari malcontenti in un unica voce contro forme di governo considerate anacronistiche.
Ipotizzando il Futuro
La situazione del medio oriente arabo è attualmente molto confusa e densa di complessità. È quindi difficile fare premonizioni. Le rivolte arabe ci hanno già insegnato quanto sia difficile prevedere gli eventi. In alcuni paesi, vedi la Tunisia e l’Egitto, hanno portato a termine cambiamenti rivoluzionari in poche settimane, in altri, come il Marocco, la transizione democratica ha avuto nuovi impulsi, invece nella vicina Algeria la situazione è rimasta tale e quale. La Libia è piombata in una e vera propria guerra civile.
Quello che si può dire comunque è che le rivoluzioni arabe che inizialmente avevano portato con sé forti entusiasmi si sono rivelate diverse da quello che alcuni speravano. Il vento di cambiamento e rinnovamento inizialmente tutto positivo ha lasciato col passare dei mesi il posto a tanta incertezza, paura per il futuro, fino a un rischio di implosione dello stesso mondo arabo.
In Egitto, il futuro è incerto. Il paese vacilla tra un ideale di democrazia araba ‘occidentalizzata’, una dittatura militare ‘addolcita’, o uno stato allo sfascio in preda a povertà estreme e estremismi. Gli occhi sono ora tutti puntati sul referendum di settembre ma allo stato attuale le domande più pressanti riguardano il costo del pane e dei beni primari, se i giovani troveranno lavoro o meno e fondamentalmente chi ha veramente in mano il potere nel paese.
In Yemen la situazione è difficilissima. Sempre più Yemeniti vivono in una situazione di povertà estrema e tutto fa presagire che se un accordo tra le varie fazioni non viene raggiunto presto, il paese collasserà nientemeno. La situazione israelo-palestinese è anch’essa molto complessa e densa di interrogativi. Al momento la situazione sembra stranamente calma, ma molti vedono proprio in questa apparente calma la quiete prima della tempesta. Le prime avvisaglie ci sono già state. Il 15 maggio, per esempio, giorno della ‘Nakba’ (che ricorda la ‘catastrofe’ del 1948), migliaia di palestinesi si sono presentati ai confini di Israele. L’esercito israeliano gli ha sparato contro e la gente si è dispersa, lasciando però una grande paura da parte israeliana di una mobilitazione di milioni di palestinesi, già politicamente molto attivi sul Web. E il timore connesso è che la risposta israeliana sarebbe, di default, militare allo scopo di garantire quella sicurezza che solo una pace duratura potrebbe portare.
Prevedere ciò che accadrà in Siria è impossibile. Il regime sembra essere, nonostante tutto, coeso e a differenza di altri paesi nella regione il rischio di un colpo di stato da parte dell’esercito molto difficile, essendo stato disegnato come difensore dell’elite regnante. È anche vero però che se le grandi masse per ora silenziose nelle città di Aleppo e Damasco decidessero di mobilitarsi sul serio, gli equilibri in campo cambierebbero notevolmente. Al momento, lo scenario più indolore per la Siria vedrebbe il Presidente Assad fare marcia indietro e proporre delle riforme politiche che soddisfino una grande fascia della popolazione. Il rischio più grande, invece, vede la Siria precipatare in una guerra civile tra le sette. Ultimamente le tensioni sunnite-alauite hanno registrato livelli molto pericolosi che possono in effetti far presagire scontri fra fazioni simili a quanto successo nei paesi vicini di Siria, Iraq e Libano. La situazione siriana è comunque destinata ad avere enormi ripercussioni su tutto il medio oriente. In caso di un cambiamento di regime, l’Iran e gli Hezbollah ne risentirebbero profondamente, perdendo l’accesso alla Siria, il Libano e la Palestina. Diversamente, se il Presidente Assad sopravvivesse alle proteste, l’alleanza siro-israeliana ne risulterebbe rafforzata. Comunque sia, per certo, la situazione non ritornerà a essere quella di prima. La popolazione siriana, infatti, così come quella tunisina ed egiziana si sono già espresse – a favore della liberà, giustizia e democrazia.
Inoltre, da quanto sta accadendo nel mondo arabo, si può constatare che la speranza o il timore di vari osservatori che le rivoluzioni avrebbero causato una drastica riduzione dell’ingerenza occidentale nel mondo arabo si è dimostrata falsa. Anzi, l’intervento in Libia a sostegno dei ‘ribelli’ ha semmai ampliato la presenza dell’ occidente nella regione e rafforzato la sua influenza nel mondo arabo – per di più col beneplacito della maggioranza degli arabi.
Un’altra fonte di incertezza è data dal fatto che non si può dire per quanto a lungo le rivolte pacifiche che continuano ad avvenire in tante piazza del mondo arabo rimarranno pacifiche, data la risposta spesso molto violenta da parte delle autorità. Il rischio di guerre civili sul modello libico, i cui danni maggiori ricadrebbero sulle popolazioni civili, è perciò molto alto.
Quello che è certo è che le rivolte arabe hanno dimostrato una volta per tutte che tanti assunti del mondo occidentale nei riguardi del mondo arabo erano totalmente falsi. Fra tutti quelli che vedevano gi arabi divisi fra ‘simpatizzanti del terrorismo’ o ‘occidentalizzati’, incapaci di decidere del loro destino e sottoposti a governi anacronistici. Le ‘rivolte dei gelsomini’ hanno dimostrato che gli arabi ne hanno abbastanza dei loro dittatori e che sono stranamente simili a ‘noi’. Hanno anche mostrato che la democrazia non è assolutamente ‘inappropriata’ al mondo arabo e che, al contrario, i ‘loro’ regimi antidemocratici avevano il beneplacito o l’indifferenza del mondo occidentale. Hanno anche dimostrato che il ‘pericolo islamista’ era per lo più esagerato. Il vento di cambiamento è stato portato avanti da giovani istruiti con gli occhi bene aperti sul mondo, lottando -pacificamente- per riprendersi il loro futuro.
Un altro aspetto fondamentale dei ‘moti arabi’ è dato dal fatto che la morte di Osama bin Laden è diventata un dettaglio quasi irrilevante. Bin Laden infatti politicamente era già morto a primavera, come dimostrato dai venti di cambiamento partiti dalla Tunisia. Questo non vuol dire che Al Qaeda, nebulosa categoria sotto la quale si racchiudono vari gruppi terroristici nel mondo, sia morta o stia per morire. Anzi. Un fallimento dei moti arabi potrebbe infatti portare a un rafforzamento del modello autocratico aprendo di conseguenza ulteriormente lo spazio per una radicalizzazione sempre più forte. Insomma o la transizione avviene in tempi relativamente brevi, entro la fine del decennio, o i decenni futuri saranno caratterizzati da un’instabilità del medio oriente ben più pericolosa di quella attuale. Il fattore tempo è infatti fondamentale, e i governanti arabi lo sanno bene e in ogni modo cercano di mantenere la situazione in stallo proprio perché senza una svolta veloce tutto ritornerà pressappoco come prima sotto nuovi nomi magari ma in sostanza invariata. I rischi, e non solo per il mondo arabo, si possono solo immaginare.